Atmosfere neomelodiche. Una prima riflessione antropologica sul ruolo della musica neomelodica nella fissazione di una memoria e di un immaginario malavitoso nel Sud Italia - Parte VI
Inserito da Fatima Falsapenna, nella categoria Antropologia e Psicologia transculturale
I. Dimensioni, ripetizione rituale e trasmissione della memoria
Le dimensioni esterne della memoria
Ogni cultura presenta una propria struttura connettiva, ossia un insieme di tratti culturali che accomuna tutti i membri di uno stesso gruppo, generando quel senso di appartenenza e quel sentire comune che agiscono da collante per il gruppo stesso e che hanno il potere di edificarne e rafforzarne l'identità.
Detta struttura opera lungo due importanti direttrici: la dimensione sociale e quella temporale. La prima lega l'uomo al suo prossimo creando, in quanto “universo simbolico” […], uno spazio comune di esperienze, di attese e di azioni, il quale conferisce fiducia e orientamento grazie alla sua forza legante e vincolante.[1]
La seconda dispiega la sua azione attraverso il racconto e crea un ponte di raccordo tra il presente e il passato, modellando e mantenendo attuali le esperienze e i ricordi fondanti e includendo le immagini e le storie di un altro tempo entro l'orizzonte sempre avanzante del presente, così da generare speranza e ricordo.[2]
Le due dimensioni della cultura, quella relativa allo spazio e quella temporale, connotano la memoria e rendono possibile la rievocazione del passato, agiscono da elementi fondanti e legittimanti dell'appartenenza e dell'identità collettiva.
Un'altra importante dimensione esterna della memoria, oltre a quella narrativa, riguarda l'ambito relativo “all'agire copiando”, la cosiddetta memoria mimetica che orienta l'apprendimento umano, attraverso la mimesi di azioni, comportamenti e usi di tipo consuetudinario; essa ha conosciuto uno sviluppo in tempi non molto lontani e forse mai del tutto pienamente realizzabile. L'impiego di guide scritte per fare qualcosa – come le istruzioni per l'uso, i libri di cucina, le indicazioni di montaggio – rappresenta uno sviluppo relativamente tardo e mai davvero compiuto. Non è mai possibile codificare completamente l'agire: vasti ambiti dell'agire quotidiano, dell'uso e del costume continuano a basarsi su tradizioni mimetiche.[3] La memoria mimetica si esprime attraverso il corpo che assorbe conoscenze e saperi appresi attraverso l'osservazione del mondo e l'esperienza diretta e che ritornano poi in ogni suo movimento, mascherati di naturalezza. Il corpo è dotato di una grande capacità mimetica, è in grado di assorbire il sapere con i pori della propria pelle, “rubandolo con gli occhi”, come quando si apprende un mestiere, sviluppando un'abilità incorporata in una sorta di “seconda natura”.[4]
Finalità della reiterazione rituale
Affinché tutti gli elementi culturali sui quali si fonda la struttura connettiva di una società mantengano la propria forza coesiva, assicurando la salvaguardia del passato, occorre che questi vengano continuamente ripetuti e attualizzati. La ripetizione, sottolinea Assmann, riposa sul principio di coerenza rituale, che fissa in maniera rigida l'ordine temporale da seguire, ad esempio, durante le fasi di celebrazione di un rito, in modo da garantire che le linee dell'azione non si smarriscano nell'infinito ma che vengano ordinate secondo schemi riconoscibili e si possano identificare come elementi di una cultura comune.[5]
Attraverso una ripetizione rituale coerente è possibile attualizzare il passato di un gruppo, ossia adattare i suoi ricordi ai cambiamenti, agli interessi e alle nuove sopravvenute esigenze della realtà presente del gruppo stesso. Secondo Mar Augé la figura che meglio condensa questo processo di abbandono del passato e di rinascita è quella del cominciamento o ri-cominciamento. La sua ambizione è quella appunto di ritrovare il futuro dimenticando il passato, rigenerando sé stessi e si esprime nella forma rituale emblematica dell'iniziazione. Ciò che allora si cancella o si dimentica nell'istante in cui sorge una nuova coscienza del tempo è simultaneamente quel che l'iniziato non è più e quel che non è ancora, sé stesso e l'altro da sé.[6]
Tuttavia, precisa Assmann, non tutto il passato viene ricordato, e solo il passato ricordato diventa significativo. Il ricordo è un atto di semiotizzazione[7], è un'attribuzione di senso che ri-significa il passato e il presente.
Tutti i riti presentano entrambi gli aspetti, ma la prevalenza dell'uno piuttosto che dell'altro aspetto è legata al maggiore o minore grado di flessibilità accordato all'ordine rituale: in un ordine rituale fissato in maniera rigida si mette maggiormente in luce l'aspetto della ripetizione, in uno più flessibile balza in primo piano quello dall'attualizzazione. Lo scopo dei riti è quello di attivare il sistema identitario di un gruppo; i riti sono i canali, le “vene” in cui scorre il senso garante dell'identità: sono l'infrastruttura del sistema di identità […]. Essi rendono partecipi coloro che vi intervengono del sapere rilevante ai fini dell'identità; tenendo in moto il “mondo”, essi istituiscono e riproducono l'identità del gruppo [...] I miti esprimono l'ordine, i riti lo riproducono.[8]
Le arti della memoria nelle culture non occidentali
Com'è noto, prima dell'invenzione della scrittura, la trasmissione della memoria avveniva oralmente o facendo uso di particolari forme di rappresentazione linguistica lontane dai sistemi di scrittura a noi noti. Tuttavia, ancora oggi, le popolazioni che non fanno uso esclusivo dello scritto, o che ricorrono ad una forma d'uso della lingua che prevede un'articolazione particolare, in chiave mnemonica, tra certe immagini specifiche e certe categorie di parole[9], un'articolazione che si condensa nell'enunciazione rituale, hanno sviluppato complesse tecniche di “archiviazione” e di trasmissione del patrimonio culturale, sociale ed anche economico che si possono considerare come vere e proprie arti della memoria. Presso le tradizioni culturali amerinde e oceaniche, per esempio, la memoria non si fissa riproducendo i suoni del linguaggio, ma le immagini che prendono corpo dalle parole; la sua conservazione e la sua trasmissione si fondano su una relazione tra immagini e parole da un lato e i contenuti cui essa rinvia dall'altro, il tutto organizzato secondo criteri analogici, di somiglianza o altro.
Le arti della memoria non occidentali si costruiscono sull'elaborazione di una salienza, ossia di una caratteristica eccezionale, sorprendente, in grado di mobilitare gli aspetti impliciti delle immagini, di riprodurre sinteticamente un concetto astratto mediante rappresentazioni grafiche controintuitive, ossia immagini ad alto potenziale emotivo ed evocativo di sensi ulteriori rispetto a quello primitivo; le immagini così prodotte vengono infine organizzate in sequenze ordinate e veicolate all'interno di situazioni di comunicazione controintuitive, ossia strettamente legate al contesto rituale.
Questi due tratti tipici della mnemotecnica non occidentale trovano applicazione in un particolare strumento di codificazione, in una struttura che - mutuando il termine dalla linguistica – Carlo Severi chiama parallelismo e che consiste nel raggruppare parole in formule ripetute e alternate ad una serie significativa di varianti che possono essere tradotte in immagini pittografiche. Il parallelismo è un vero e proprio metodo per organizzare salienza e ordine, per facilitare la memorizzazione dei canti rituali nelle tradizioni amerindiane, per orientare l'evocazione mnemonica[10]. Esso può essere oggettivo, ossia applicarsi alla concezione del mondo, oppure riflessivo, estendersi cioè anche alla figura dell'enunciatore di questa concezione, come ad esempio, quella dello sciamano che si trasforma in un io-memoria, perché assume il ruolo di un rappresentante della tradizione, diventa la voce di un sapere condiviso.[11]
Secondo Claude Lévi-Strauss, la figura dello sciamano richiamerebbe per molti tratti quella dello psicanalista, con l'unica differenza che quest'ultimo deve condurre il paziente verso la riscoperta di un mito individuale, quindi racchiuso nel suo inconscio, riemergente dal suo lontano passato; nel primo caso, invece, lo sciamano conduce il paziente verso la rivisitazione di un mito sociale, consegnatogli dall'esterno, riemergente dalla memoria culturale propria del proprio gruppo di appartenenza. Tra i Kuna, una popolazione che abita il territorio della repubblica di Panama, lo sciamano viene interpellato anche nel caso di parti difficili, la cui causa viene fatta risalire a Muu, spirito responsabile della formazione del feto, e al ratto da parte di Muu dell'anima della futura madre. Compito dello sciamano in tal caso è quello di raggiungere – dopo un faticoso viaggio - la dimora di Muu per riprendere l'anima della paziente, provocando in lei un'esperienza di natura spirituale, dando voce, attraverso il canto rituale ad un sapere condiviso, quindi ad una memoria culturale comune e attualizzando in tal modo il mito sociale che questa, per guarire, deve rivivere. La cura sciamanica sembra essere un esatto equivalente della cura psicanalitica, ma con una inversione di tutti i termini. Entrambe mirano a provocare un'esperienza; ed entrambe vi riescono ricostruendo un mito che il malato deve vivere, o rivivere. Ma nel primo caso, si tratta di un mito individuale che il malato costruisce con l'aiuto di elementi attinti dal suo passato; nell'altro, di un mito sociale, che il malato riceve dall'esterno e che non corrisponde a un antico stato personale.[12]
Anche le genealogie hanno la funzione di trasmettere la memoria, perché consentono di stabilire rapporti di discendenza sui quali, ad esempio, fondare principi di legittimità del potere o grazie ai quali poter vantare diritti sui patrimoni. Un caso particolarmente significativo di sistema di memorizzazione legato alle genealogie è quello dei Nuer, una popolazione di pastori che vive nelle paludi e nelle aree della savana che si estendono ai lati del Nilo, per la quale la ricchezza è costituita in via esclusiva dal bestiame e le obbligazioni che sorgono in occasione, ad esempio, degli scambi matrimoniali, si misurano in capi di bestiame.
Il sistema genealogico dei Nuer comporta una forma istituzionalizzata di memoria, ma nello stesso tempo anche di oblio, in quanto essi calcolano le generazioni sia dall'alto, partendo cioè dagli antenati progenitori di un determinato clan, ma fino ad un massimo di sei generazioni, sia dal basso, solo per cinque generazioni. Dopo qualche generazione si perde la memoria di una generazione di antenati e con essa anche delle obbligazioni contratte. Tutti i clan principali comprendono da dieci a dodici generazioni tra i viventi e gli antenati che li iniziarono. Quando si chiede a un Nuer il suo lignaggio risponde riferendosi a un antenato, il fondatore del suo lignaggio minimo, che risale da tre a sei, generalmente quattro o cinque, gradi di ascendenza.[13]
Ricordo biografico e ricordo fondante
Assmann individua due diverse modalità di ricordo: biografico e fondante. Il primo di questi due modi si riferisce ad eventi collocabili in un passato recente, mentre l'altro riguarda fatti accaduti in epoche remote, in un tempo lontano, in una preistoria mitica. I ricordi biografici danno vita alla memoria comunicativa, ossia a quella dimensione esterna della memoria di un gruppo che nasce con esso e si conserva fino a che i suoi detentori (testimoni coevi) restano in vita; di norma, questo genere di ricordi si colloca all'interno di un orizzonte temporale che non supera il secolo, si nutre di memorie organiche, di esperienze dirette e del sentito dire, scaturisce infine dalla interazione quotidiana e informale, sociale e linguistica[14] tra i membri del gruppo.
Il ricordo fondante, che per Assmann coincide con il mito, appartiene invece alla dimensione culturale della memoria, la quale si condensa nelle figure del ricordo che interpretano il presente alla luce di un passato assoluto, mitico e attraverso quest'ultimo, lo caricano di significato. Il ricordo fondante possiede inoltre un alto grado di formalizzazione, ha valenza istituzionale e, spesso, carattere sacro; predilige un canale comunicativo di tipo cerimoniale, come nelle feste, che si codifica in danze, immagini, e riti; assume forme oggettivate concrete e stabili (come nel caso della scrittura) e viene alimentato da specialisti del ricordo (sacerdoti, sciamani, scrittori, ecc.).
[1]Jan Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi ed., Torino, 1997, p. XII
[2]Ibidem
[3]Jan Assmann, op. cit., p. XVI
[4]Giovanni Pizza, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci ed., Roma, 2005, pp. 31,32
[5]Ivi, p. XIII
[6]Marc Augé, Le forme dell’oblio, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 82
[7]Ivi, p. 49
[8]Ivi, p. 111
[9]Carlo Severi, Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria. Come la mente dimentica e ricorda, Oscar Mondadori ed., Milano, 2001, p. XIII
[10]Carlo Severi, op. cit., p. 305
[11]Carlo Severi, Il percorso e la voce. Un'antropologia della memoria, Giulio Einaudi ed., Torino, 2004, p. 195
[12]Claude Lévi-Strauss (1964), Antropologia strutturale. Dai sistemi del linguaggio alle società umane, Il Saggiatore, Milano, 1990, p.225
[13]E. E. Evans – Pritchard (1940), I Nuer: un'anarchia ordinata, Franco Angeli ed., Milano, 1975, p. 263
[14]Ugo Fabietti – Vincenzo Matera, Memorie e identità. Simboli e strategie del ricordo, Meltemi ed., Roma, 1999, p.20