La relazione terapeutica indagata attraverso i concetti di rêverie materna, di trasfert e controtrasfert

 

 

Si presenta alla mia attenzione con una postura rigida, rannicchiata. È come se si volesse abbracciare da sola, per rassicurarsi e per “tenersi insieme” e, infatti, noto che una delle sue mani sembra quasi paralizzata, per questo, la blocca saldamente al  ventre con l'altra. Mi suscita, subito, molta tenerezza e senso di protezione e cerco di metterla a proprio agio, mostrandomi aperta, rilassata e molto accogliente nella postura e nel sorriso, avvicinandomi con la sedia. Sempre con molta delicatezza, le dico che mi sono accorta della sua mano gonfia e del fatto che probabilmente le duole molto. A questo punto, inizia a parlare della sua malattia e del fatto che si è diffusa, purtroppo, anche alle ossa e che lei l'ha scoperta proprio così, attraverso il  dolore ed il gonfiore all’arto. Ma la sofferenza per il cancro, scoperto troppo tardi non sarebbe nulla in confronto a ciò che lei ha patito nella vita. La voce si fa rauca ed il suo addome si contrae violentemente in uno spasmo. Prosegue, raccontando che, circa 10 anni addietro, ha perso il suo bambino. Il suo bambino adorato e tanto desiderato. Come se stesse rivivendo l’accaduto, in preda ad un flashback intrusivo, mi parla della corsa al pronto soccorso, dei suoi pugni sbattuti sulle porte affinché le aprissero, affinché facessero in fretta a farlo nascere perché lei moriva dal dolore e sentiva che qualcosa non andava nel verso giusto. Il suo piccolo è morto, poco prima che nascesse o, forse, nel momento stesso di venire al mondo. Pesava più di tre chili e tutto, fino a quel momento, sembrava essere andato nel verso giusto. Nella ecografia d’urgenza, prima del parto, si vedeva ancora la sua manina che si muoveva. Poi, la tragedia. Un dolore immenso, tutt’oggi inspiegabile. Quel corpicino inerme, senza vita, così amato e così già carico di speranze, veniva trasportato via come uno straccio dal personale ospedaliero. Nessuna parola di conforto, nessuno sguardo di compassione, ma volti indifferenti e privi di empatia, di partecipazione emotiva alla sua grave perdita. Come se, in realtà, non fosse accaduto nulla. Ebbene, lei non riesce a dimenticare quegli sguardi, anche se sono passati anni. Lei, ancora, muore dal dolore se ci pensa e, in realtà, ci pensa sempre, li ha sempre di fronte agli occhi quei volti inespressivi e gelidi e pensa anche che tutto ciò che ha vissuto allora, la morte del figlio e quegli sguardi mortiferi e assenti, sia peggiore del suo cancro, che non è nulla in confronto. E arriva anche a formulare l’ipotesi che la sua attuale malattia derivi da quel passato, ma sempre attuale, enorme trauma, da quel dolore immenso, rimasto inascoltato ed incistato nel suo corpo senza trovare una via di fuga, una elaborazione mentale. La sofferenza è amplificata dallo sguardo e dall’atteggiamento altrui. Lo sa bene chi è stato vittima di violenza ed ha visto nello sguardo del proprio aguzzino una cattiveria e un godimento tali nell’avergli procurato dolore, da aggiungere al malessere fisico una sofferenza psicologica, che è in grado di potenziare quel trauma, travalicando totalmente le capacità soggettive di contenimento dello stesso. Corpo e mente sono un tutt’uno ed allora, può succedere anche che chi ha subito un abuso psicologico perpetuato non soltanto attraverso manifesti agiti, ma anche attraverso modalità comportamentali e comunicazioni non verbali più sottili e nascoste, ma altrettanto potenti, sviluppi un sintomo organico, un malessere fisico, piuttosto che mentale, difficile da spiegare e da affrontare, a meno che non si abbia una visione d’insieme che sia in grado di ricollegare il sintomo fisico alla causa psicologica. Un bravo terapeuta, allo stesso modo di una madre sufficientemente buona, deve necessariamente fare buon uso del controtrasfert, ovvero di ciò che il paziente gli trasferisce (trasfert) addosso in termini di pensieri, ma anche di sensazioni, senza colludere con lo stesso, cercando di metabolizzare ovvero masticare, digerire, il bolo indigesto e, spesso, senza nome e spiegazione che la persona sofferente gli rimanda, non solo a parole, ma anche attraverso il corpo e attraverso il suo modo peculiare di relazionarsi con esso. A volte, per esempio, i pazienti ti suscitano noia, che arriva addirittura al sonno, tristezza, antipatia, pena, impotenza, rabbia etc. Ebbene, bisogna imparare a stare in compagnia di questi vissuti, di queste nuvole di probabilità, come le chiamava W. Bion, senza reagire, senza aver fretta di capire: è qui la chiave per cercare di dare un senso al non senso e rimandare al mittente qualcosa che egli possa comprendere, tollerare, qualcosa di già masticato che sia più digeribile, come fa il pennuto con la prole, qualcosa che lo aiuti a transitare a una nuova tappa di sviluppo del pensiero. Ritornando alla relazione adulto/bambino, L.S.Vygotskij, a tal proposito, teorizzava l’esistenza di uno spazio, di una zona di sviluppo prossimale, che si trova a metà tra le vecchie/abituali modalità di conoscere e operare e le nuove, in cui l’adulto esperto, con i suoi suggerimenti, rappresenta per il discente una sorta di ponte, di protesi, per transitare a nuove conoscenze/competenze ed è esattamente ciò che lo psicoterapeuta deve fare con il suo paziente. Ma adesso ritorniamo alla paziente di prima e alle sue convinzioni sull’origine della sua malattia e al suo corpo bloccato, pietrificato. Nel riportare lo stralcio di questa seduta non voglio certo sostenere che tutto quello che lei pensa sia accaduto realmente, perché il cancro ha un’origine multi causale e, sebbene numerosi studi indichino che lo stress cronico possa rappresentare una concausa e soprattutto incidere sulla sua progressione, mancano dati conclusivi al riguardo, anche se, invece, pare indubbio, come afferma numerosa letteratura di qualità, che condizioni emotive avverse incidano sulla prognosi e sull’adattamento alle terapie oncologiche, favorendo anche comportamenti non salutari che inficiano la qualità di vita. Rimane il fatto che questa donna, comunque è portata e non è la sola, del resto, a pensare che un grande dispiacere, un lutto, un tradimento, una separazione, in generale, possa essere la causa del proprio tumore. La paziente, tra l’altro, prima del nostro incontro, non ha potuto condividere con nessuno questo dramma, per senso di vergogna e di protezione, mi confida. Perché non deve stupirci, ma questa indifferenza o assenza di partecipazione emotiva al proprio dolore, è come se lo rendesse nullo quel dolore, è come se non lo rendesse degno e, per un perverso meccanismo, fa sì che diventi indegno e deplorevole pure chi la prova quella pena, esattamente a quanto accade anche nelle esperienze di abuso, in cui la vittima si sente e finisce, spesso, purtroppo, per percepirsi ed essere percepita, paradossalmente, come il colpevole. E poi, spesso, in chi subisce un trauma subentra anche un  senso di protezione, nei confronti degli “altri significativi” coinvolti (nel caso specifico: marito ed altri figli), parimenti, in quella esperienza traumatica, a cui si vogliono risparmiare sofferenze aggiuntive, che rimangono, per questo, congelate nel corpo ed implodono dentro. Che cosa possiamo fare, dunque, con questi dolorosi irrisolti? Di certo, noi professionisti dell’area sanitaria dobbiamo essere consapevoli di muoverci e di operare su un fronte di guerra, in campi minati, e di avere, per questo, grandi, direi grandissime responsabilità, nell’approcciarci a corpi e menti devastate, che, spesso, proprio a motivo di ferite laceranti, ovvero di esperienze traumatiche che travalicano le proprie capacità di contenimento mentale, cominciano a dissociarsi e a funzionare in maniera separata e primitiva. E allora può accadere, e non è infrequente in ambito oncologico, che il terapeuta debba rimettere insieme i pezzi, riappacificare corpo e mente, riportando a galla esperienze così emorragiche da non riuscire a transitare per le vie simboliche, preferendo le più celeri e immediate vie somatiche, perché, utilizzando la metafora dell’acqua, la forza della corrente è così prepotente da sfondare qualsiasi argine e scaricarsi sui terreni circostanti, devastandoli, senza riuscire ad essere incanalata ed utilizzata in maniera fruttuosa. La relazione con un altro significativo (alleanza terapeutica), ma estraneo al proprio mondo familiare, se ben indirizzata da un terapeuta esperto, attiva, invece, tante ed inaspettate risorse che sono importantissime per la crescita mentale e per il superamento di paralisi fisiche e mentali. L’informe può prendere forma, la vita può rinascere e corpo e mente possono riappacificarsi. Un nuovo sguardo, partecipe e benevolo, può rispecchiarci e farci sentire degno di essere al mondo. Adesso, nel qui e ora, il terapeuta esperto, che spazia, utilizzando tecniche appartenenti a orientamenti psicoterapeutici diversi, è in grado di fare emergere elementi del proprio passato per affrontarli di nuovo in un modo diverso o per sperimentarli addirittura per la prima volta se, come affermato, quegli stessi traumi non sono riusciti a transitare nel registro mentale, rimanendo degli inspiegabili sintomi somatici. E’ una avventura non facile, è un viaggio molto faticoso per entrambi gli attori della relazione, ma se non si avrà fretta di raggiungere la terraferma, c’è la buona possibilità di rientrare al porto con una “seconda pelle”. Jamila adesso sta meglio. Ha superato la radioterapia e si appresta ad affrontare altre terapie con più coraggio e spirito combattivo. La sua serenità è visibile dal volto, che emana una radiosità percepibile anche dalla mascherina e dal velo che l’avvolge intorno al capo. Non crede di poter guarire dalla sua malattia, ma ciò non le impedisce di credere di poter vivere ancora a lungo, più pienamente e più felicemente insieme al marito e agli altri due figli. La luce della speranza si è riaccesa ed “Inshallah”, se Dio vuole, come afferma spesso, lei è determinata a vivere, giorno per giorno, per realizzare i propri progetti.

 

Dott.ssa Marina Marconi, psicologa - psicoterapeuta

Resp. Servizio di Psiconcologia U.O. di Radioterapia Oncologica Centro di Medicina Nucleare San Gaetano SRL

 

 

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